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Strano destino, quello di Michael Winner. Tra i registi più archetipici del poliziesco nei Settanta, aspetta in Italia ancora che qualcuno ne spieghi il portato intellettuale. Se un giorno si materializzasse, costui finirebbe per riportare l’eccentricità del personaggio Winner entro gabbie interpretative, che ne svilirebbero il senso e il valore, soprattutto analizzando i suoi film più controversi. La natura del regista inglese è quella di un uomo di cinema che ha lavorato tutta la vita, per costruirsi una cifra personale, uno stile registico, di scrittura e di montaggio che lo presentasse al mondo per quello che, in fondo ha sempre voluto essere ed è stato: uno sperimentatore dei generi e un provocatore nell’affabulazione dei temi. Buon regista di intrattenimento? Mostrare solo l’azione o preferire l’introspezione psicologica dei personaggi. I polizieschi di Winner ruotano intorno a tali problematiche, anche se la sua scrittura filmica non è né autocompiaciuta né decantata, anche quando Charles Bronson ne L’assassino di pietra vede riflessi in uno specchio i flashback subliminali dei delitti, su cui indaga.